"L'UNIVERSO CI AIUTA SEMPRE A LOTTARE PER I NOSTRI SOGNI, PER QUANTO SCIOCCHI POSSANO SEMBRARE. PERCHE' SONO NOSTRI E SOLTANTO NOI SAPPIAMO QUANTO CI COSTA SOGNARLI"

mercoledì 17 novembre 2010

FEDERICO FELLINI


LA STRADA
“Credo che il film l’ho fatto perché mi sono innamorato di quella bambina-vecchina un po’ matta e un po’ santa, di quell’arruffato, buffo, sgraziato e tenerissimo clown che ho chiamato Gelsomina e che ancora oggi riesce a farmi ingobbire di malinconia quando sento il motivo della sua tromba”.
(Federico Fellini, Fare un film, Einaudi, Torino, 1980, p. 60)



LA DOLCE VITA
CURIOSITA'

“Avevo stabilito che il personaggio di Nadia avrebbe indossato reggiseno e mutandine bianche sotto il vestito scuro. Pensavo che il contrasto sarebbe stato sensazionale e molto sexy, ma Nadia Gray, l’attrice, rifiutò. Mi disse che nessuna donna che sapeva qualcosa di vestiti avrebbe mai pensato di indossare reggiseno e mutandine bianchi sotto un abito scuro. Si sarebbero intravisti. E lei non si sarebbe sentita a suo agio nel togliersi un abito scuro rivelando una biancheria intima bianca. Disse che non poteva farlo. Era una cosa assolutamente contraria al personaggio. Fu così convincente che le credetti. Mi persuase. Accettammo il reggiseno e le mutandine neri”.
(Charlotte Chandler, Io, Federico Fellini, Mondadori, Milano, 1995, pp. 160-161)


René Cortade:
("Arts", 18 mai 1960)
Raramente le possibilità molteplici di cui dispone il cinema (immagini, dialoghi, musica, recitazione degli attori, montaggio, angolo di ripresa, profondità o ampiezza di campo) sono state associate in modo più felice e più completo, utilizzate con maggior forza [...] Ma, al tempo stesso, questa perfezione tecnica, non vuole imporsi, non è quella di un virtuoso [...] Il cinema più puro, più audace è [nella Dolce vita] al servizio di una delle visioni più profonde, più originali del nostro tempo. Le due grandi tendenze della scuola italiana, la tendenza a togliere il cinema dal romanzo di Zavattini e la tendenza a esprimere - con una ricerca tesa sempre più verso la verità - l'al




AMARCORD


Nella Rimini degli anni trenta l'adolescente Titta cresce fra educazione cattolica e retorica fascista. Suo padre, Aurelio, è un capomastro anarchico e antifascista: sulle sue spalle oltre i due figli, la moglie e l'anziano padre, piuttosto arzillo, vive anche il cognato sbruffone e perdigiorno, lo zio "Pataca". Suo fratello Teo è invece chiuso in manicomio. La cittadina è popolata da personaggi singolari, come Volpina la ninfomane, Giudizio il matto, Biscein il fanfarone, l'avvocato dalla retorica facile, il motociclista esibizionista, il cieco che suona la fisarmonica. Titta frequenta il liceo cittadino, dove le interrogazioni si alternano agli scherzi a insegnanti e compagni. La sua vita erotico-sentimentale si divide fra l'inarrivabile Gradisca, i grossi seni della tabaccaia e i balli d'estate al Grand Hotel spiati da dietro le siepi. Con il borgo condivide il trascorrere delle stagioni, con i fuochi per festeggiare l'arrivo della primavera, e gli eventi, il passaggio della Mille Miglia e quello del transatlantico Rex, la visita del gerarca fascista e il nevone. La morte della madre e il matrimonio di Gradisca segnano la fine della sua adolescenza.


I VITELLONI


“I vitelloni non voleva distribuirlo nessuno, andammo in giro a mendicare un noleggio come dei disperati. Mi ricordo certe proiezioni allucinanti. I presenti, alla fine, mi lanciavano occhiate di traverso e stringevano dolenti la mano al produttore Pegoraro in un’atmosfera di alluvione del Polesine. I nomi non me li ricordo e se mi li ricordo è meglio non farli.
Mi ricordo una proiezione alle due del pomeriggio, d’estate, per il presidente di una grossa società. Venne con passo elastico, bruno, abbronzato sotto la lampada al quarzo, con la catenella d’oro al braccio, il tipo del venditore d’automobili, quello che piace alle donne. [...]
Non lo presero. Finì a un’altra distribuzione che non voleva il titolo I vitelloni. Ci consigliavano un altro titolo: Vagabondi! Con il punto esclamativo. Dissi che andava benissimo, però suggerivo di rafforzare l’invettiva con un vocione da orco che sulla colonna sonora tuonasse Vagabondi! Accettarono il titolo soltanto quando Pegoraro gli diede altri due film che loro consideravano sicuramente commerciali. Ma sui primi manifesti e le prime copie non vollero il nome di Alberto Sordi: fa scappare la gente, dicevano, è antipatico, il pubblico non lo sopporta”.
(Federico Fellini, Fare un film, Einaudi, Torino, 1980, p. 53-54)
Tra i protagonisti il più inafferrabile è Alberto Sordi, che Fellini ha preteso contro tutti. Nel frattempo il comico si è impegnato con Wanda Osiris nella rivista di Garinei e Giovannini Gran baraonda ed è giocoforza, per averlo sottomano, seguire lo spettacolo in varie “piazze” tra le quali Viterbo e Firenze. Nel Teatro Goldoni, chiuso per inagibilità e pieno di topi, viene girato il veglione di carnevale; e un ambiente fiorentino viene utilizzato per il negozio di arredi sacri.
(Tullio Kezich, Fellini, Milano, Camunia, 1987, p. 193)
LO SCEICCO BIANCO

Lino Del Fra:
("Bianco e Nero", a. XVIII, n. 6, giugno 1957)
In Lo sceicco bianco l'originalità dell'espressione trova la sua concretezza in una inquietudine senza sfogo, che si riflette e si manifesta nella cattiveria con cui la macchina da presa si muove, ora per fissare impietosamente, ora per sollecitare in tono di satira, gesti fatti e azioni dei protagonisti piccolo-borghesi alle prese con la realizzazione dei loro sogni provinciali. Una piccola borghesia vista come rinuncia alla autenticità, come desiderio di inseguire con commovente impegno una folla di miti usuali e flaccidi: dalla fanfara dei bersaglieri - simbolo di una retorica patriottarda - al mondo dei fotoromanzi; dalla passeggiata in carrozza per le vie di Roma al suicidio per onore, alla sospirata udienza.


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